Dal 1920 Il Museo Davia Bargellini ha sede nel seicentesco Palazzo Davia Bargellini, antica dimora della famiglia Bargellini. Ritenuto uno degli edifici civili più rilevanti di Bologna, per mole e nobiltà di impianto, fu commissionato nel 1638 da Camillo Bargellini all’architetto Bartolomeo Provaglia, che nel giro di vent’anni lo portò a termine. Al centro, il portale si anima con due grandi sculture di telamoni che sorreggono il balcone centrale, realizzate entrambe entro il 1658, da Gabriele Brunelli, scultore molto attivo in città, allievo a Roma di Alessandro Algardi. A quella di sinistra lavorò anche Francesco Agnesini, suo stretto collaboratore.
In un intervento successivo, intorno al 1730, il senatore Vincenzo Bargellini dota il palazzo con il grande e arioso scalone a tre rampanti, che porta al primo piano, impreziosito dagli stucchi di Giuseppe Barelli. Alla sua progettazione lavorarono con ogni probabilità anche i due maggiori architetti del momento, Carlo Francesco Dotti (ideatore del progetto, che voi conoscete per il Santuario di San Luca) e Alfonso Torreggiani, che si occupò della sua costruzione.
Venendo ora al Museo, sappiamo che in origine fu allestito al secondo piano del Palazzo e inaugurato nel maggio del 1920 con la denominazione di Museo d’Arte Industriale, e non di arti decorative, come dichiarato nei primi intenti dal suo fondatore.
Passano quattro anni dalla prima apertura e nel 1924 il museo viene trasferito al piano terreno, con un nuovo allestimento, che occupava otto sale (oggi sette, dopo la trasformazione di una sala in deposito), ripensato per accogliere all’interno di un unico percorso anche la prestigiosa Quadreria Davia Bargellini.
Ancora oggi le sale espositive risentono in gran parte dell’impostazione su cui Malaguzzi aveva fondato la propria concezione di museo, riunendo i due distinti nuclei patrimoniali che tutt’oggi compongono il museo, la raccolta d’arti applicate e la celebre quadreria dei Bargellini, nell’intento di dare vita ad un appartamento arredato del Settecento bolognese, dove accanto a mobili e suppellettili di pregio si dispongono oggetti rari, come lo scenografico Teatrino per marionette veneziane del Settecento,l’incantevole riproduzione in miniatura dell’interno di un’abitazione privata emiliana del XVIII secolo, una «sorta di divertissement d’ebanisteria forse esemplato sulle più celebri case di bambola» presenti nel nord Europa, ma assai poco diffuse in Italia. Prende corpo dunque una raccolta eterogenea di oggetti di arte applicata, «curiosità della vecchia Bologna», che annovera un materiale composito: ferri battuti, rami, bronzi ornamentali, cuoi impressi, fra i quali spicca il celebre Astuccio per pietra di paragone, raffinata testimonianza del quindicesimo secolo; chiavi, finimenti, maniglie per mobili; una significativa raccolta di vetri)(secoli XVI-XVIII), ceramiche, porcellane delle più importanti manifatture europee (Meissen, Ludwigsburg, Frankenthal, Hochst; alcune cere di altissima qualità, tra cui la Testa di San Filippo Neri di Alessandro Algardi, ispirata alla maschera funeraria del santo, ed ancora campionari di carta da parati e da libri, stoffe, ricami i paramenti argenti, arredi liturgici, ventagli, ritratti in miniatura, raccolte di tabacchiere, orologi smaltati, chiavette e quadranti a smalto di orologi dipinti a figurette (XVIII-XIX), una serie di modellini per mobili e sedie in miniatura dei secoli XVIII-XIX. Ai nuclei appena citati, si può aggiungere un’ingente raccolta di preziose cornici intagliate e dorate (XVI-XIX secolo), molte ancora nell’assetto d’origine, con i corrispettivi dipinti: fra tutte, spiccano senza ombra di dubbio le due cornici ad ampi racemi intagliati e girasoli, risalenti al 1699 conservate nel salone maggiore del Museo, «riconosciute fra gli esempi più spettacolari della fortuna ricevuta a Bologna dai formulari decorativi di stampo romano, quali il repertorio di Filippo Passarini (1698)».
Proprio nel salone il Direttore fa convergere mobili e arredi per una messa in scena sontuosa: alle pareti la celebre serie dei dipinti di Marcantonio Franceschini muniti delle cornici originali, e tutt’attorno vetrine, poltrone, sedie e le tre ricche consoles riferibili a Luccio Lucci, con il piano intarsiato in madreperla, provenienti dell’arredo dell’appartamento nobile del senatore Vincenzo Bargellini e da questi commissionate a Venezia forse nel 1698. Nei propositi di Malaguzzi Valeri il salone diviene il punto di arrivo del suo ideale di museo, un luogo in cui poter «far rivivere nell’immaginazione un mondo scomparso»: «Quando le sale si animano con la presenza di visitatori e gli ori corruschi dei ricchi mobili del fastoso Settecento nel più grande salone si accendono e brillano, la sera, alla luce delle lampade elettriche da mille e cinquecento candele, par meno difficile rievocare l’andirivieni antico delle dame agghindate e dei gentiluomini in spadino in attesa del Cardinal Legato e il lento ondular delle danze e degli inchini leggiadri al suono degli strumenti musicali, oggi muti in un angolo».